METTI UNA CALDA SERA DI LUGLIO ALL’ARENA

Stuzzicato da articoli di stampa e dai commenti estemporanei di addetti ai lavori e semplici appassionati, ho deciso di verificare dal vivo.

Materia del contendere la messinscena dell’Aida di Verdi che il famoso collettivo La Fura dels Baus ha allestito per l’Arena di Verona: l’ennesima futile diatriba tra sostenitori della tradizione tout court e fautori del rinnovamento.

Bene, confesso che la realizzazione visionaria immaginata dai registi Ollè e Padrissa  mi ha assai  intrigato. Premetto che non sono un melomane militante, di quelli che non bucano una prima o che tifano per questo o quell’artista; in compenso non mi ritengo del tutto sprovveduto in materia, seppure a livello basico. Ma quel che più conta, sono un soggetto aperto a esperienze che rimuovano gli strati di polvere accumulati in decenni di immobilismo sull’arte in generale. Per molti si tratta di tradizione ma, se il melodramma è interessato ad allargare il suo bacino di utenza, ha l’obbligo di uscire dal ghetto in cui è (stato) confinato da una certa critica fondamentalista e da quella minoranza di appassionati che vorrebbe seguitare a condizionarne scelte e percorsi musicali.

In questo senso, il pubblico dell’Arena, proprio per il suo essere complessivamente naif, si può dire rappresenti il miglior campione statistico possibile. E il grande pubblico, a dispetto delle risatine di pochi, ha mostrato di gradire la gigantesca scenografia straripante di invenzioni tecnologiche, con gonfiabili che si trasformano in colline, elefanti e cammelli non più in carne, ossa ed… escrementi (era ora!) ma sagome meccaniche in legno e acciaio, il sacro Nilo ricostruito allagando il palcoscenico in cui si aggirano candidi alligatori decisi ad azzannare le caviglie di schiave nubiane e di nomadi che si riscaldano ignari attorno al fuoco; e ancora, bidoni di materiale radioattivo che rotolano spinti da giovinetti imparruccati, esploratori europei in regolare sahariana, vigili del fuoco in divisa d’ordinanza mescolati in ordine sparso tra una moltitudine di guerrieri e notabili di vario grado paludati in abiti futuribili.

Su tutto, una gru solleva e assembla lungo l’intera durata del concerto grandi pannelli neri, a comporre la gigantesca centrale solare che, ripiegando lentamente su se stessa, nella scena finale seppellisce gli sfortunati amanti decisi a morire uniti.

Messa in questi termini parrebbe un gran casino. In effetti, tale è, ma organizzato rigorosamente, con geometrica potenza, da una regia geniale. Dunque uno spettacolo assolutamente da vedere prima che da ascoltare. Quanto agli interpreti, magnifica l’Aida del soprano Hui He (senza dubbio una grande realtà verdiana), supportata da Jorge De Leon (Radamès),  Carlo Cigni (il re), Daniela Barcellona (Amneris), Marco Spotti (Ramfis), dalla grande orchestra dell’Arena ottimamente diretta dal giovane OmerMeir Welber e del coro del maestro Armando Tasso .

A questo punto una chiosa che deriva dal mio essere palesemente “plebeo” rispetto a un argomento così serioso: distratti dal work in progress di operai e figuranti intenti a innalzare il gigantesco totem (evidente trasposizione onirica del dio Sole caro agli Egizi) avendo come sfondo dune che crescono e si accavallano languidamente, si corre il rischio di perdere di vista il contesto squisitamente canoro. Di contro, durante le interminabili fasi di parlato, si riducono al minimo colpi di sonno ed esercizi di stretching. Non è poca cosa, credetemi, considerato che il concerto, al lordo di intervalli dedicati a beveraggi, minzioni e cambi di scena, supera le quattro ore di durata.

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