Dal grande schermo allo spazio scenico; dal sogno di celluloide alla “quarta parete”.
Quando una briosa commedia di cassetta del nuovo cinema italiano atterra, e senza soluzione qualitativa di continuità, a teatro. Di fronte a un pubblico, per di più, generalista, composto anche da spettatori non sempre adusi al regno di Shakeaspeare.
Come tanti, chi vi scrive era ammantato di una qualche forma di indicibile scetticismo, condiscendenza e vago spirito da Colosseo nell’andare ad assistere, martedì sera al teatro Circus di Pescara, alla prima volta del divo d’altri tempi Raoul Bova su un palcoscenico di prosa. Invece, ecco la sorpresa, ecco la magia inattesa.
Lo spettacolo si chiama “Due” e vede protagonista, insieme a Bova, un altro personaggio oramai mainstream (anzi, televisivo) come Chiara Francini. Lo stesso regista è un esordiente in questo senso: Luca Miniero ha già diretto vari lavori di successo (come “Benvenuti a sud”), ma al cinema. Ebbene, lo ribadiamo, questo sapido e mai corrivo vaudeville sulla vita di coppia, nel quale il presente si interfaccia ai fantasmi del futuro in una costellazione di convitati di pietra sentimentali sotto foggia di cartonato, funziona benissimo. Così come decolla l’effetto transfert col pubblico in sala (gremita, nemmeno una sedia vuota nei due giorni di repliche: chapeau alla stagione della Luigi Barbara).
Significa che il canovaccio è solido e credibile, significa che i due attori si sono calati sapientemente nella parte. Istrionica e “monella” Chiara Francini; composto, plastico e tutt’altro che deludente Raoul Bova, oltre agli occhi chiari e ai bicipiti torniti c’è di più. Anche a teatro.
Parafrasando Lucio Dalla, “riamiamoci tra vent’anni”. Il ménage è sottoposto all’ineluttabile fuoco di fila di quegli eventi esterni che spesso minano alle fondamenta la passione prima, l’amore poi. I genitori, “l’altro, l’altra”, le piccole grandi querelle domestiche, i mobili fai da-te e il balletto delle gelosie e delle ripicche auto-alimentantesi. Perché non ci si ama soltanto in due, ma bisogna scendere a patti perpetui con tutte le interferenze che ci ronzano intorno.
Perché il teatro emoziona quando è semplice, binario, ma così complesso.
Non ci si annoia per niente, centrata la scenografia, si sorride, ci si rispecchia con lievità.
Alla fine ovazione e diversi minuti di applausi. E tutti (tutte) a caccia dell’autografo di Bova. Stavolta se l’è sicuramente meritato.