“VENERE IN PELLICCIA” DI POLANSKI, CHE MERAVIGLIA

Visto ieri sera, in una d'”essaissima” sala 4 del cinema Massimo, in tutto sei estatici spettatori, dall’omonimo libro dello scrittore austriaco ottocentesco Leopold von Sacher-Masoch, caposaldo della letteratura romantica extreme, passando per una pièce del drammaturgo americano David Ives,

“Venere in Pelliccia” di Polanski, secondo Polanski.

Che meraviglia. Direi capolavoro.

Al solito Polanski, classe 1933, quindi ottant’anni, per freschezza e naturalezza di contemporaneità di linguaggio e messa in scena, batte marmaglia di “giovani cineasti occupanti” cento a zero.

Sul solco del precedente “Carnage”, anche questo film si svolge inside un’unità di tempo-spazio che più non si potrebbe:  una lunga carrellata di un boulevard parigino e subito si finisce sofficemente sospinti dentro un indistinto e piccolo teatro. Tutto in una notte. Teatro nel teatro nel dopo-teatro, visto che quella che diventerà la formidabile masocchiana Vanda, Musa e Padrona del suo promesso e contrattualizzato schiavo, anzi servo, Severin, anzi Thomas, il protagonista-adattatore del film, si chiama proprio Vanda, irrompe sul proscenio a provini teoricamente già finiti da un pezzo, sembra un po’ sguaiata, inservibile e camp e passatella ma si rivelerà nei 96 minuti facendo l’attrice perfetta per quel ruolo, per ogni ruolo,

è Emmanuelle Seigner, questo è il suo miglior film, è strepitosa nel tessere e nello stendere la sua tela multiforme e semidivina di Donna e nella vita è la moglie vera di Roman Polanski;

e l’attore maschile, Mathieu Amalric, non è altrettanto formidabile e inoltre e  forse soprattutto, non sembra l’alter ego spiccicato di Polanski, psicologicamente e finanche fisicamente parlando?

E quanto c’è di autobiografico, di pre-testamento esistenziale e artistico, in questo “Venere in pelliccia” (Venus in Furs) di Roman Polanski, il più giovane neo-ottantenne di tutti i tempi, regista perpetuamente incredibile e imprendibile?

Nel mezzo, tanta realtà travestita da finzione; parecchia letteratura e teatro filmato e gioco di potere e guerra senza prigionieri tra i sessi, ché in amore, e nella vita, si è sempre o vittime o/e carnefici, e vince sempre, o sempre dovrebbe vincere, la donna; improvvisi inserti di tagliente ironia, capaci di desublimare l’ineluttabile, finché possibile (poveri intellettualoidi per esempio nella Francia adottiva che si lasciano vivere gettando il proprio tempo fissando Art’è e discorrendo dell’ultimo Goncourt).

La vita non è fatta forse della stessa sostanza del sadomaso, basta saperlo sinceramente rappresentare, basta saper trovare il bandolo giocoso del dramma?

Il confine tra arte  e vita si è fatto o dovrebbe farsi talmente sottile e poroso da sparire magicamente, magari di notte, magari dentro un teatro del Mistero dell’esistere e del sussistere, del filmare e del recitare.

La vita non è tranquilla e alla missionaria. Di certo non lo è la vera arte, come il grande cinema-teatro di Roman Polanski.

 

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