LE PAROLE E LA LENTEZZA SONO TUTTO: TORNA SEPULVEDA

 Lo scrittore cileno Luis Sepulveda, molto amato in Italia, che oggi presenta il suo nuovo libro, Storia di una lumaca che scoprì l’importanza di essere lenta (Guanda),

è stato a Pescara in due occasioni: nel 1993, quando gli venne assegnato il premio Flaiano ed il SuperFlaiano dal presidente di giuria Mario Luzi,

e nel 2000, in occasione della tavola rotonda, organizzata dai Premi Internazionali Flaiano, Letteratura e comunicazione alle soglie del 2000, alla quale parteciparono, oltre allo stesso Sepulveda, Andrea Camilleri, Daniel Chavarria, Giuseppe Conte, Manoel De Oliveira, Lawrence Ferlinghetti, Luciano Luisi, Ian McEwan, Mario Luzi, Dante Marianacci, Walter Mauro e  Renato Minore.

 La prima agnizione, dicevamo, nel 1993: erano le prime volte che si cominciava a parlare di questo giornalista-scrittore esule dalla dittatura di Pinochet. 

“Si aggirava tra la gente un giovane scuro di pelle, con la barba un po’ incolta, sorridente e impac­ciato. Vestiva un abi­to bianco che lo di­stingueva ad uno sguardo lontano. Quando prese posto tra i premiati molti si chiesero chi “fosse co­stui!”. Il suo nome era Luis Sepúlveda, scrit­tore cileno dalle gran­di speranze. Il roman­zo per il quale sareb­be stato di lì a poco premiato si intitolava: “Il vecchio che legge­va romanzi d’amo­re”. Più che un ro­manzo, era un lungo racconto che muove­va da un rapporto tra l’uomo e l’animale, sulle orme di Melville e del capitano Achab. Stavolta l’ambiente era la foresta amazzonica dove un vecchio uccideva una femmina di “tigrillo” in cerca di vendetta. Con il sacrificio del­l’animale tornava alla serena quotidianità. I lettori di “Oggi e Do­mani” seguirono que­sta strada del nuovo e dello sconosciuto attribuendo a Sepúlveda il proprio voto e, quindi, il Superflaiano. Ancora una volta la giuria, sempre presieduta da Mario Luzi, aveva mostrato coraggio e lungimiranza” scrisse Franco Farias, testimone oculare e “istituzionale”.

E poi, alle soglie del 2000, la seconda volta pescarese di Sepulveda.

Ecco, testuale, una tranche del suo intervento, intitolato “La comunicazione è solo un mezzo per trasmettere la parola“:

“Credo che l’abitudine di raccontare storie sia tanto antica come l’abitudine di vivere. Ricordo l’esempio, dal momento che ho sempre amato i libri, di un episodio di diversi anni fa quando iniziai la lettura di un libro che, in qualche modo, mi ha rovinato: è un romanzo di un grande scrittore chiamato Ray Bradbury dal titolo “Farenheit 451”. Mi lasciò amarezza poichè ero convinto che quello potesse essere il destino dei libri. E iniziai a pensare che anch’io dovevo imparare a memoria un libro, dovevo ricordarlo per poterlo salvare, ma il problema era di decidere quale libro. Per fortuna dopo un po’ di tempo lessi una dichiarazione di Bradbury. Un giornalista statunitense gli chiese se per caso la sua visione apocalittica corrispondesse alla realtà e Bradbury rispose assolu­tamente di no poichè nessuna macchina, nessun sistema sociale o politico potranno permettere che il paradiso del sesso e l’inferno del dolore siano i due poli estremi dell’esistenza. Sono sempre i due poli per i quali si muove l’esistenza umana. Questo mi fece recuperare la fiducia nei libri e nel futuro. Più tardi mi imbattei nella parola “comunicazione” e dovetti interrompere una vita da autodidatta per trasformarmi in un laureato in scienze delle comunicazioni. Quando ho concluso il mio ultimo giorno nell’uni­versità di Heidelberg, l’unica cosa che avevo appreso era che o si intendeva la comunicazione come una scienza, o si sarebbe tra­sformata in una perversione al servizio del mercato. La dichiarazione di Ray Bradbury e le cose apprese all’università mi chiarirono il futuro del libro e il significato di comunicazione. Più tardi ho avuto la fortuna di conoscere un grande uomo e un caro amico che si chiama Vittorio Gassman che un giorno mi insegnò la vera importanza della parola, e camminando in un parco di Roma, in cinque minuti appena, nominò più di duemila cose: l’ultima parte di un’oca, la caratteristica delle sei zampe di una formica, la longitudine di seimila piume, e mi contagiò il suo entusiasmo di essere il creatore, il fondatore di una cosa per il semplice fatto di nominarla. E in quel momento ho capito che il libro è l’amoroso preservatore della parola, che la comunicazione è semplicemente un mezzo per trasportare la parola, e che la cosa più importante è la parola in se stessa, il suo significato ultimo, e che l’unico problema del prossimo millennio sarà quello di restituire il vero valore e il vero significato alla parola. Per esempio dire “uomo del Sud” e non “cittadino extracomunitario”.

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